Vieni avanti, kibbutzino!

Dopo il primo incontro di mercoledì resto d’accordo con Bella per sentirci domenica, per ricevere ulteriori direttive su come e quando raggiungere il kibbutz Iotvata. Così, domenica di buon’ora la chiamo per sentirmi rispondere che mi aveva già cercato al telefono ma non avevo risposto quindi devo aspettare a Tel Aviv per la settimana successiva, dal momento che il kibbutz accoglie i lavoratori di domenica in domenica. Dopo un breve istante di scoramento gliela conto un po’ su, dicendo che non ho dove stare a Tel Aviv e pochi soldi, e che l’attesa è un serio problema per me. In realtà sono ospite fisso, già da questa estate, presso la famiglia Iarqoni per ogni mia visita in città, ma nonostante abbia la mia camera degli ospiti e conoscano le mie ritualità del cappuccino la mattina, il caffè a pranzo e la pasta a cena preferisco inizare la mia avventura nel kibbutz il più presto possibile, dal momento che questa prima permanenza durerà solo tre mesi. Bella mi lascia dicendo che farà il possibile e che mi farà sapere. Da buon segugio la richiamo dopo due ore, conoscendo l’andazzo israeliano. Mi risponde una collega che aggiorno sulla situazione, dice che mi richiama tra cinque minuti. Lo fa, mi comunica che partirò per il kibbutz martedì (domani)  e che quindi mi apettano domani mattina (lunedì) in ufficio per firmare il contratto.

Il cordless israeliano. Le canaline per cavi nel muro non vanno di moda, preferiscono la sistemazione ‘a groviglio’.

Nel piccolo seminterrato pieno di foglietti scritti a mano appesi ai muri, numeri di telefono scarabocchiati su pizzini, faldoni di contratti di lavoro passati, depliant illustrativi, sembra il quartier generale della CIA: telefoni squillano senza sosta, le due operatrici rispondono in tre lingue, dal fondo di un altro ufficio una segretaria e un ragazzo discutono, questione di 50 shekel che lui vuole indietro. Mi concentro sull’ebraico aleggiante per la stanza. E’ una partita di tetris in pieno corso: dal kibbutz mandano i profili richiesti, dall’ufficio sondano i fascicoli, dai divanetti d’attesa, disposti a L di fronte alle due scrivanie anch’esse a L, i volontari pongono le loro condizioni. Nord o sud, deserto o colline della Galilea, cucina o campi, due mesi o quattro. Il tutto con cruda e disinteressata discriminazione: lui sa fare questo, lei viene da ques’altro paese, quell’altro ancora ha 25 anni. Siamo tutti volontari, nel senso della parola, quindi alla selezione non si aggiunge competizione: ciascuno verrò assegnato al luogo in cui c’è più bisogno di lui. Dalla mia seggiolina nell’angolo, dopo rituali cenni di saluto a due tedesche e un’apparente svedese, riesco ad assistere al piazzamento a nord di un koreano: prima ancora che sia uscito dall’ufficio frastornato dalle trattative una lunga riga è tracciata sulla sua riga nella lista. Avanti un altro. Tocca a un messicano, ma purtroppo mi perdo la discussione del suo destino perchè non posso pagare con carta le commissioni dell’ambasciata, quindi esco in caccia una banca. Dopo un breve giretto per il centro di Tel Aviv, in cui m’imbatto nel solito scenario della capitale capitalista mediorientale, rientro nel bunker seminterrato ed è il mio turno. ‘Lorenzo…’ incomincia, e poi risponde al telefono per sentirsi rifiutare l’ennesima volta una ragazza americana da un kibbutz nel deserto: attualmente sono in giro troppe ragazze e troppi anglofoni, e questa biondina dall’accento del sud, in piedi di fianco a me, è rimasta a piedi, in attesa da due settimane. Vuole lavorare per soli due mesi, è mingherlina e non sa una parola d’ebraico: ringrazio un dio a scelta per essere nato in Italia e aver fatto il liceo classico. ‘Puoi scegliere se partire oggi a mezzanotte o domani alle 6, sono quattro ore di bus. Se parti stanotte ricordati di scendere alla fermata prima di Iotvata, dove c’è un ristorante in cui puoi aspettare che ti venano a prendere dal kibbutz, all’alba.’. Rispondo che non mi fa differenza, cosa è meglio per il kibbutz? ‘Chiamo adesso’. Rispondono subito: meglio domani alle 6. Tiro un sospiro di sollievo, mi spiace solo che sarò ancora nelle pianure centrali al momento dell’alba. Scandito dagli intervalli regolari delle chiamate dai kibbutz, il nostro incontro procede veloce: le serve il mio passaporto per finire le pratiche del visto, me lo manderà tra due settimane al kibbutz, questo è il numero di riferimento da chiamare quando sarò arrivato a destinazione, questa è la mia maglietta del Kibbutz Volunteer Program. Sta per salutarmi con un in bocca al lupo quando una nuova chiamata ci interrompe: lei parla chiaro, si vede che è una nuova immigrata dall’europa, quindi capisco che si tratta di un ragazzo che ha fatto casini da ubriaco, è quello che litiga nell’altro ufficio. Lei ripete la policy per cui è vietato bere, mi allarmo. Appena mette giù le chiedo spiegazioni sulla policy, facendo outing in ebraico, e stupita mi risponde, in ebraico, che non è vietato l’alcol, è solo vietato bere se ti ubriachi e ti devono portare in camera di peso e il giorno dopo non lavori perchè sei in un coma di vomito. Le dico che non sono americano, coperto dall’ebraico che la biondina non capisce, e in uno slancio di chiacchiera in quella frenesia strategica mi fa apprezzamenti sull’italianità, quella stessa che mi ha fatto trovare un kibbutz pronto ad accogliermi in meno di tre giorni dal mio arrivo a Tel Aviv. Mi chiede chi sono e cosa ci faccio e si stupisce che non sia ebreo: non tanto per il volontariato nel kibbutz, a cui partecipano in maggioranza non ebrei, ma per il fatto che prendo il kibbutz come una fase di studio-lavoro transitoria verso l’università.

Ci salutiamo, infine, senza che mi possa dire nulla di più su cosa farò nel kibbutz, per quante ore al giorno e in quali condizioni, con chi dormirò, quanti, e quanti giorni di ferie maturerò: aspetta domani, dice, al tuo arrivo saprai cosa farai. Bene, penso, altrimenti quando? Chiude il mio fascicolo: avanti un altro.

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