La normalità di Gerusalemme è qualcosa di sconcertante. Dai 40 minuti di trasporto gratuito degli studenti dal campus sul Monte Scopus alla sede di Givat Ram si direbbe un’efficiente città universitaria; dalla sommaria perquisizione del bus all’ingresso dell’area si direbbe una zona militarizzata; dalle piante e gli animaletti colorati in giro per i giardini si direbbe un orto botanico a metà tra il tropicale dei pappagalli e il mediterraneo dei pini; dalla calma nullafacente dei 4 operai che sistemano un tubo in bagno si direbbe la Calabria, come la immaginiamo noi

nordici; dalle donne con gonna lunga e parrucca alla fermata del bus si direbbe un paese di ortodossi polacchi del XVII secolo; dalle frotte di turisti e viaggiatori che trascinano le valigie sotto il sole cocente si direbbe una capitale europea; dai preti russi agli haredim alle vecchiette velate si direbbe un gigante ballo in maschera, dress code: nero. Di Gerusalemme si direbbero molte cose, e all’occhio del visitatore è chiaro come i frazionamenti, dagli orari dell’autobus ai quartieri ai negozi al cibo nei ristoranti alla lingua in cui sono scritti i cartelli alle icone appese ai muri delle case, non sono altro che lo strenuo tentativo di ogni comunità di sancire l’identità della propria Gerusalemme. E’ una jungla in cui ogni identità culturale, cercando di espandersi, prevarica le altre, dal momento che lo spazio è quello che è: Gerusalemme è una terra promessa a un po’ troppe persone. Ogni setta, ogni etnia, ogni ideologia mira alla luce, all’effettiva visibilità: una bandiera sul tetto, un logo sul muro, un codice di comportamento, un divisa ufficiale, un servizio religioso. Il caso dei divieti alimentari è paradigmatico: ebrei, musulmani, drusi e cristiani, con tutte le loro sottofamiglie, seguono diverse regole, ma tutti puntano ad avere ristoranti che le garantiscano. Se il locale si trova in centro, è grande, è buono, è famoso, molti vi andranno anche tra i non affiliati alla comunità, in questo modo sottomettendosi o se non altro riconoscendo l’identità etnico-cultural-religiosa del ristorante: etiope, copto, beduino, eritreo, armeno.
Le regole di kasherut ebraica sono chiaramente le dominanti, per un duplice motivo. Primo, sono moltissime e dettagliate, rispettate a seconda del grado di religiosità, istituzionale o individuale: oltre alla dottrina della scuola rabbinica di riferimento (non esiste l’equivalente del Papa) che interpreta la Scrittura in un modo piuttosto che in un altro, ci sono le inclinazioni personali: c’è chi non mischia carne e latte ma mangia crostacei, c’è chi non mangia il salame ma beve vino toccato da un non ebreo, e viceversa. Per ciascuna istituzione religiosa, abbastanza potente da permetterselo, c’è un’agenzia di controllo sulla produzione e il trattamento del cibo che rilascia infine il proprio certificato di kasherut. Il certificato è garanzia di clientela ebraica osservante, che vuole essere assicurata sulla purezza di ciò che mangia, e dunque un business: di fatto, a Gerusalemme è quasi tutto kasher, con la maggior parte dei locali e tutti, ma proprio tutti i servizi pubblici ebraici, chiusi all’entrata dello

shabbat il venerdì sera. Per muoversi si ricorre agli autobus e ai taxi arabi. C’è infatti anche un motivo politico-istituzionale per cui le regole alimentari dominanti sono quelle ebraiche: il governo ha commissioni apposite per il controllo sulla larga distribuzione (Coca-Cola ha dovuto cedere la sua ricetta segreta al controllo rabbinico per ottenere il mercato israeliano, Heineken ha una sede israeliana kasher vicino Netanya, McDonald’s ‘hakasher’ chiude per shabbat, caso unico al mondo) di modo che la quasi totalità dei supermercati serve solo cibo certificato, dal gusto assolutamente identico al cibo profano, lo stesso come le catene multinazionali fast-food. L’israeliano medio ti dirà che è una questione d’affari per nutrire le lobby religiose. In secondo luogo, infatti, il governo israeliano, democraticamente eletto, mostra un pesante paternalismo ‘teocratico’: soldati chiudono il traffico nei quartieri a seconda delle festività di riposo, i ristoranti aperti di shabbat sono sanzionati con una multa simbolica (anche a Tel Aviv dove sono pieni di gente a qualsiasi ora del giorno e della notte), le mense scolastiche sono kasher, gli ospedali, gli aerei hanno il doppio menu e non solo su ElAl, la compagnia di bandiera, ma su tutte le tratte che passano per l’aeroporto Ben Gurion, l’unico modo per allevare maiali è su palafitte sollevate da terra perchè la loro impurità ‘non tocchi il suolo sacro’. Il messaggio è chiaro: in Israele rispetti prima di tutto gli ebrei, con le loro regole, che tu lo voglia o no. Vuoi mangiare del maiale? Cercati un negozio non kasher e spendi un sacco di soldi.
Personalmente, questa è la verra guerra della Gerusalemme israeliana dal ’67, che in quanto luogo simbolo e luogo di confine amplifica ogni tensione. Non tanto i tre anni di militare, la violenza in Palestina, i metal detektor in ogni luogo pubblico; non tanto il controllo sui corpi, quanto sulle anime: ad ogni dove, dagli ortodossi che ti vogliono far pregare ai sacerdoti di strane religioni in giro a raccogliere fondi, c’è qualcuno che vuole averti in nome di qualcos’altro in cui lui crede. In un posto tanto maniacalmente proiettato nella trascendenza, ogni sacchetto della spesa è un atto politico.
ma questa grande campagna elettorale come si concilia con la riluttanza alle conversioni?