Mi ricordavo Huji (Hebrew University of Jerusalem) calda e silenziosa, abitata da noi spaesati studenti di lingua dei corsi estivi. La ritrovo sempre calda, a parte i soliti 10 gradi di differenza tra fuori e l’interno climatizzato, ma superaffollata, brulicante di studenti e di avvisi, di gente che razzola nei corridoi presa dalle proprie occupazioni o di studenti in pausa, placidamente accoccolati a godersi le occupazioni degli altri. I biblioteca, da cui scrivo adesso, è più che altro il vociare che mi piace: alla prevalente parlata ruvida dell’israeliano si aggiungono qua e là mozziconi di discorso in francese, spagnolo, arabo, tedesco e, ovviamente, americano. Niene italiano. A questo si aggiunge l’ebraico parlato da stranieri, che mi fa sentire meno a disagio per il magrissimo stato del mio! In realtà non ho dimenticato molto di quello che ho studiato quest’estate, ma la prontezza comunicativa è andata persa…in solo un mese. Poco male, ne ho altri otto da stare qua in full immersion.

Nello Cfar Hastudentim, il dormitorio maggiore, hanno aperto un pub, due settimane fa. Ieri sera con la scusa di Halloween mettevano, per i primi venti ad entrare nel locale, 40 shekel (meno di 10 euro) per quanta birra vuoi: neanche a dirlo, io e i miei compari, un americano, un israeliano, un arabo, un sudafricano, un nigeriano, una inglese, un canadese, eravamo tra quei pochi eletti, pronti davanti alla porta alle 20.50. Alle dieci il locale era già pieno che non ci si stava e no, gonfi come zampogne, abbiamo iniziato l’apartment tour in cerca di cibo da sgranocchiare. Tra la gente in costume da super Mario, agricoltori vietnamiti, sirenette, Winnie the Poo, o semplicemente vestiti male, tra incontri con gente che non vedevo da fine settembre e con cui avevo condiviso i primi due mesi di Israel-shock, ci imbattiamo in un piccoletto tutto occhiali che inizia a raccontarci appassionatamente di qualcosa che non mi ricordo minimamente, ma il punto è che non riesco a decifrare il suo accento in inglese. Al momento di scambiarsi una breve presentazione tra tutti, mi butto e gli chiedo, in ebraico, se è francese: mi risponde, in ebraico, che è italiano. Parte l’esultanza.
‘Sei il primo che incontro!’
‘Anch’io!’
‘Cosa ci fai qua?’
‘Cosa ci fai tu qua?!’
‘Di Padova? Io di Arenzano, in Liguria’
‘Ma non hai l’accento ligure’
‘No infatti originariamente di Milano’
Ci raccontiamo di quanto è bello ogni angolo d’Italia, di quanto sono stilosi gli italiani e di quanto sia buono il cibo, di quanto non ci sia un altro posto al mondo dove vivere e di quanto ci facciamo riconoscere sempre in positivo: insomma, tutti quegli elogi della patria che riescono a emergere solo dall’esilio. Tra baci abbracci e una buona dose di italiano vero (capita di beccare qualcuno che lo studia come seconda o terza lingua, ma una chiacchierata così è più una fatica che un piacere) in mezzo alla folla vociante in altri idiomi ‘stranieri’, torniamo con gli altri all’inglese e in fretta ci perdiamo nell’imminente dileguamento della festa: probabilmente non lo rivedrò, ma se lo rivedrò saremo immediatamente ‘proximi’, alla latina, in virtù dell’eccezonalità di un incontro tanto improbabile. All’alba delle 3, la polizia inizia a fare la ronda dopo che qualche povero studente sotto esami le ha provate tutte per dormire nonostante il degenero nei giardini, negli ascensori, negli appartamenti. Con rispettosa rassegnazione, tutti ci ritiriamo, nessuno oppone resistenza invocando cavillosi diritti di libera circolazione, come invece mi sarei aspettato: semplicemente, è ora di andare a dormire, anche per quelli che, come me, domani non hanno lezione. Fa anche questo parte dell’aria di famiglia che soffia costante nel dorm.