Universo kibbutz

I kibbutz sono stati la prima forma sistematica d’insediamento ebraico in Palestina, ben prima dello Stato d’Israele, da parte di immigrati

Arance e fucili: il ruolo dei kibbutz nei primi due conflitti arabo-israeliani è stato di primissimo piano.

prevalentemente dall’Est Europa e Russia. Oasi nel deserto o fattorie tra le colline, sono stati centri nevralgici di produzione, tanto agricola quanto culturale, comunicazione e difesa militare prima e durante gli anni della guerra d’indipendenza del 1948, e questo fa di loro un potente simbolo d’orgoglio nazionale, nonostante l’età d’oro del kibbutz sia ormai passata. Ancora oggi gli studenti israeliani sono portati in gita nei kibbutz per partecipare al raccolto o alla mungitura e per imparare quel balzano stile di vita. Scrittori, ingegneri, politici sono spesso nati o cresciuti in kibbutz, la quasi totalità della produzione di frutta e latte viene dai kibbutz nonchè l’eccellenza delle innovazioni zootecniche ed energetiche da esportare in tutto il mondo.
Ma che cos’è un kibbutz? L’idea di base è la costituzione e il mantenimento di una piccola comunità totalmente autosufficiente, fondata sulla totale uguaglianza dei suoi membri e il rifiuto del profitto individuale come modello di sviluppo: insomma, comunismo reale ebraico. Perchè l’idea sia nata proprio in seno all’ebraismo, non mi è ancora chiaro, tuttavia non c’è dubbio che la Palestina d’inizio Novecento si prestasse, con le sue distese aride e disabitate e il disperato bisogno di motivazioni ideologiche, ad una tanto singolare forma di colonizzazione in condizioni estreme. A dir la verità il sionismo à la kibbutz ha profonde radici laiche, se non addirittura atee, rifacendosi all’identità etnica dei figli di Abramo che, dopo essere stato disperso in tutto il mondo, sono infine tornati alla propria terra per imporvi uno Stato nazionale. L’ideale del ‘monastero senza Dio’ della prima ora ha quindi segnato una secca frattura con l’ortodossia dell’ambiente di provenienza di molti kibbutzinik (gli abitanti del kibbutz), promuovendo la parità tra i sessi, l’educazione libertina dei figli e l’emancipazione dalla pesante regolamentazione rabbinica, al suo posto divinizzando il lavoro. Come al solito, la questione del rapporto ebraismo-Israele, anche nella sua declinazione sull’esperimento kibbutz, è controversa. Da un punto di vista teorico è problematica sia per l’individuazione dell’ebreo (il religioso praticante? il figlio di ebrei? il figlio di mamma ebrea? il figlio di Abramo in senso lato?), sia per la puntuale condanna biblica delle Nazioni come segno del demonio in opposizione al Regno di Dio del popolo eletto che il Messia, e soltanto lui, instaurerà in terra alla fine dei tempi; da un punto di vista pratico i kibbutz, per quanto sionisti secolari, vollero conservare nel loro stile di vita puntuali osservanze di leggi di matrice ‘divina’, quali il riposo del sabato, i divieti alimentari, le preghiere più importanti…con la pretesa di spogliare il tutto di valenza religiosa. Quanto ciò sia coerente è argomento di discussione dalle top università americane ai più piccoli centri di cultura ebraica.

La tipica struttura di un kibbutz nel deserto del Negev. Se potessi, chiederei di essere messo a lavorare qui.

Ad oggi i kibbutz sono riuniti in tre grandi movimenti, a seconda del grado di privatizzazione che hanno adottato, e molti di loro accettano lavoratori alla pari per un minimo di tre mesi e un massimo di sei: ebrei o non ebrei, comunisti o non comunisti, studenti in anno sabbatico o scapestrati in cerca di espedienti di sopravvivenza, poco importa, basta essere pronti a lavorare sodo. Oltre alla tradizionale attività agricola oggi i kibbutz hanno sviluppato fabbriche, centri sportivi, hotel, spa, e, soprattutto, brevetti: semi ogm, microchip, plastiche e gomme, sistemi di irrigazione. Il ruolo assegnato all’istruzione è infatti l’aspetto più stupefacente dell’intero fenomeno, per noi che associamo il lavoro nei campi a un clan di mezzadri ignoranti che firmano con la ‘X’: ogni kibbutz provvide immediatamente a fornire scuole materne e superiori ai propri bambini, finanziamenti e ‘borse di studio’ a carico della comunità agli studenti più promettenti che quindi andarono, e continuano ad andare, in città o all’estero per formarsi e quindi tornare nel kibbutz, facendo fruttare l’investimento. Chiaramente, il collegio dirigente del kibbutz deve approvare l’interesse di studio dello studente e garantire che si concili con le esigenze di tutta la comunità. Oltre allo sviluppo economico, nelle breve storia d’Israele si ricordano primi ministri, presidenti, alti generali dell’esercito e grandi intellettuali kibbutznik. Anche qui, il tradizionale studio della Torah di matrice rabbinica è stato rimpiazzato nella sostanza da studi secolari di ogni tipo, dalla chimica alla letteratura, ma la devota dedizione è la stessa, tanto nei kibbutz quanto, più in generale, in Israele.

A grandi linee, queste poche informazioni alla portata di ogni israeliano sono bastate a convincermi a investire un anno di lavoro alla pari in kibbutz, incuriosito da come una bolla di socialismo resista nella tempesta capitalista, e molto mi resta da scoprire: chi comanda nel kibbutz? quali prerogative ha? qual è la percentuale di abbandono? quale quella di ritorno? ricevono finanziamenti o donazioni? quanto è un fenomeno ebraico? quanto è esportabile? quale statuto giuridico ha il kibbutz? quali i vincoli edilizi? e il sistema fiscale? Per adesso posso solo aspettare il colloquio di mercoledì prossimo in cui l’agenzia dei kibbutz mi esaminerà e mi assegnerà al kibbutz che ha più bisogno dei miei servigi, dopodichè avrà inizio la ricerca sul campo, tra una spalata di letame e una raccolta di datteri.

 

 

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